L’integrazione nella storia
L’Italia si fregia in Europa di avere un sistema scolastico basato sull’inclusione delle persone con disabilità, sia perché sancito direttamente nella Costituzione della Repubblica e sia per il lavoro emerito svolto dal Ministero dell’Istruzione negli anni settanta a favore dell’inclusione scolastica e di una più moderna definizione del concetto di disabilità. Il risultato più rappresentativo è senza dubbio il Documento Falcucci del 1975, sulla base del quale è stata poi emanata la Legge 517/77, più conosciuta come la legge Falcucci del 1977, sul tema della programmazione pedagogico didattica della scuola.
L’importanza del sopra citato studio svolto dalla politica Franca Falcucci sulla condizione dei disabili a scuola in Europa e nel mondo, è la valorizzazione della persona in base a quello che sa dare, riconoscendo nella scuola il luogo preferenziale della crescita della persona disabile; come si evince dalle sue stesse parole: "proprio perché deve rapportare l'azione educativa alle potenzialità di ogni allievo, appare la struttura più appropriata per far superare le condizioni di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati". Il documento appare attuale anche per quanto riguarda la didattica che pone l’alunno al centro del processo di apprendimento e il disabile riconosciuto per chi è nella sua peculiarità umana: “Le diverse attività scolastiche non sono di per sé "primarie" o "integrative", "normali" o di "recupero", ma lo diventano quando un progetto didattico le valuta in rapporto al livello di maturazione o alle esigenze di un singolo o di un gruppo”.
Dalla fine degli anni settanta, quindi, le persone con ogni tipo di disabilità vengono incluse nel sistema scolastico standard, invertendo la tendenza a far loro frequentare solo scuole speciali o a lasciarli in famiglia.
Alla Falcucci riconosciamo anche il merito di aver formalizzato una definizione di disabilità più moderna, e questo a distanza di soli vent’anni dalla definizione di “soggetto subnormale” nell’acronimo della neonata associazione Anfass. Nel testo di riferimento appare infatti la definizione “portatori di handicap” e la descrizione "minori che in seguito a evento morboso o traumatico intervenuto in epoca pre-peri-post natale presentino una menomazione delle proprie condizioni fisiche, psichiche e/o sensoriali, che li mettano in difficoltà di apprendimento o di relazione".
Ma cosa è stato veramente fatto per l’inclusione in questi quarant’anni? Dopo avere dato il permesso a chi ha diversità di entrare nelle classi di chi non ha diversità, cosa è stato fatto per rendere questa inclusione fruttuosa e non solo teorica? In termini di leggi dobbiamo aspettare il 1992 per la legge 104/92, che è tuttora il riferimento legislativo "per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Questa legge definisce e sancisce i loro diritti e difende la lotta delle persone con disabilità a frequentare la vita che il presente ci offre.
Lo teorizza, ma nella pratica ancora tante persone con disabilità, venti anni dopo la legge 104, sono di fatto escluse dalla vita sociale costruita da e attorno a chi non ha diversità, non perché sia vietato dalla legge, ma per mancanza di mezzi concreti affinché essa diventi accessibile e applicabile. Vorrei citare un esempio tratto dalla mia vita di tutti i giorni di madre di un bambino con disabilità, per argomentare quanto scritto: ad oggi non in tutte le città italiane è possibile che un bambino con autismo partecipi ad un corso di nuoto di gruppo, anche se questo favorirebbe il suo abituarsi a stare in dinamiche sociali, e questo perché mancano, in termini formativi e occupazionali, educatrici che siano anche insegnanti di nuoto che lo accompagnino in piscina. La soluzione proposta sono costosi corsi individuali, che non favoriscono quindi la dinamica di gruppo. Per cui non è un problema di soldi pubblici mancanti, ma essenzialmente un problema di possibilità declinabili nella vita reale che mancano.
La Legge 517/77 ha l’indiscusso merito di aver portato una ventata di freschezza nella vita relegata di molti disabili, ma ha anche lasciato dei problemi organizzativi nelle scuole dell’epoca, dove il posto degli insegnanti di sostegno non era sempre ricoperto da personale esperto per la disabilità specifica. Questo problema purtroppo continua ai giorni nostri, dove ancora non è pianificata a livello ministeriale la possibilità di avere assistenti educatori o insegnanti di sostegno mirati per il tipo di disabilità. È questo un punto a mio avviso molto deficitario della scuola, pur condividendo e capendo la difficoltà organizzativa di un intervento di questo tipo, ritengo che lasciare irrisolto ancora per molto questo aspetto di didattica nella scuola e, a monte, nei corsi universitari che preparano i futuri insegnanti, porti inevitabilmente a una didattica inclusiva che per molti versi risulta solo demagogica.
Questo aspetto demagogico delle politiche di inclusione della diversità è magistralmente descritto in un intervento di Silvia Totino, un’informatica di Milano con Sindrome di Asperger, dove con lo stile diretto e asciutto tipico degli scritti di persone con autismo, in poche parole dipinge quanto a volte sia una strada senza meta il concetto di inclusione a tutti a costi: “Questa idea fissa dell’integrazione “a tutti i costi”, senza lavorare per ottenerla rispettando i diritti di tutti, è ridicola e demagogica.”.
A questo proposito mi interrogo su come sia possibile pretendere da un gruppo di bambini di otto anni in una classe elementare di oggi che non escludano dal gruppo un bambino autistico che parla da solo in classe, di fatto disturbandoli, o che opera comportamenti al limite, che includono anche mangiare dai loro piatti a pranzo o gestire in modo anomalo spazi e oggetti personali. Non trovo giusto chiedere loro di farlo senza contestualmente dare loro anche gli strumenti per capire tali comportamenti, e questo da parte di personale specializzato alla disabilità specifica, creando la prevenzione che nasce prima dei comportamenti discriminatori o di bullismo.
Durante il parent training che ho seguito per genitori di bambini con autismo presso l’azienda sanitaria di Trento nel 2013, mi è stata spiegata l’importanza del cosiddetto outing, ovvero uscire dall’ombra e condividere apertamente con il consiglio di classe, in una riunione specifica, cosa abbia il bambino e cosa significhi essere lui. Questo gesto, ancora difficile perché si scontra con il livello di accettazione della realtà raggiunto dai genitori, è in realtà essenziale in quanto diffonde conoscenza, sostituendo pregiudizi, rumori e false credenze che ostacolano di fatto l’integrazione. In un gruppo sociale dove non c’è conoscenza di qualcosa, si tende a riempirla con qualsiasi altra notizia arbitrariamente ritenuta affine, creando falsità e permettendo reazioni negative basate di fatto su falsità.
La mia esperienza personale e all’interno del mio lavoro nell’associazione di assistenza e orientamento per famiglie con difficoltà, è stata estremamente positiva in seguito all’outing: i bambini normotipici accettano le diversità imparando anche a gestirle e le famiglie in difficoltà vengono invitate agli eventi sociali senza creare discriminazioni.
Figure di assistenza scolastica altamente preparate alla disabilità specifica, parent training per genitori e l’outing sono strumenti essenziali per vivere una vera integrazione ai giorni nostri, ma non posso concludere questo intervento senza citare coloro che per primi hanno lavorato in questo senso, ossia le lotte dei non vedenti nel campo della creazione di percorsi specifici, dall’illuminismo con la scuola per ciechi, agli inizi del novecento con Romagnoli il primo insegnante cieco della scuola pubblica italiana, e oggi con la concettualizzazione, nascita e realizzazione della figura del tiflologo o facilitatore alla disabilità visiva. Questo importante campo di studi cerca e fornisce aiuti concreti alla realizzazione della migliore qualità di vita possibile per persone ipovedenti e cieche. Nessuno cerca di guarirli, nessuno preclude loro nulla, si facilita la loro vita e la realizzazione della loro indipendenza e volontà a raggiungere qualsivoglia obiettivo. La tiflologia ha il merito concreto di studiare le peculiarità proprie della diversità visiva senza giudizi di sorta su nessun tipo di norma condivisa.
Auspico la creazione di figure affini per tutti i tipi di diversità, che aiutino la persona e il contesto dove la persona vive, a capirne di più sul suo modo di vivere, scoprendo diversità e affinità fra tutti noi. Con questo lavoro vorrei portare la mia esperienza viva di vivere una vita di diversità, in termini di cosa sia la vita reale oltre la descrizione peculiare della disabilità stessa.
Il mondo è cambiato in fretta nell’ultimo secolo, con l’avvento di Internet e dei viaggi aerei anche le distanze sembrano accorciate, il sapere non è più in biblioteche inaccessibili o gestito da pochi eletti, ma è a disposizione di tutti con un click sullo smartphone, gettando semmai nuovi dubbi su cosa sia vero e attendibile e cosa no. Ci stiamo costruendo un nuovo sistema di valori di riferimento dove finalmente il termine laico non ha più una connotazione negativa. Al di là delle leggi che regolano la vita di chi ha disabilità vorrei in questa sede descrivere cosa vuol dire vivere nella vita reale con una disabilità per chi ce l’ha e per chi no.
Persone senza un arto corrono alle olimpiadi, bambini dello spettro autistico che pur parlano, persone non vedenti che scrivono a computer e presentano video durante una lezione in classe, bellissime donne che hanno il permesso per parcheggiare nei posti riservati ai disabili, madri che abbracciano e baciano pubblicamente il loro figlio chiaramente psichiatrico, se questo non è un terremoto per tutte le antiche concezioni di disabilità da nascondere, disabilità come non abilità e disabilità come bruttezza e malattia, allora cosa dovrebbe esserlo?
Avere disabilità oggi è una sfida e una opportunità per dimostrare a sé stessi e agli altri i tempi sono cambiati e i limiti sono solo nella nostra testa, nelle nostre ancestrali paure di restare soli a morire di fame. Le leggi ci sostengono, la società è pronta a capire questa nuova condizione e ora tocca a chi la vive tutti i giorni e ai loro famigliari di lottare per accettarla e renderla reale anche nella vita di tutti i giorni.
Esistono vari tipi di disabilità e vari modi di vivere la vita e affrontare questa sfida.
Per sapere come siamo oggi leggi qui.


